APS “I COMICI DI TALIA”

Associazione di promozione sociale

Sala Teatro Antonio Cecere

presso la Chiesa Parrocchiale Santa Maria Maddalena

Scampia

il 13 Gennaio 2024 alle ore 20,30

NON TI PAGO

commedia in due atti di

Eduardo De Filippo

regia di Gianni La Camera

personaggi e interpreti

(in ordine di sparizione e apparizione)

Personaggi

si ringraziano
gli Amici Fabio Orbitello e Gianni Martone

NON TI PAGO (1940) – Sinossi

Ferdinando Quagliuolo, proprietario di un banco del lotto, è vittima della mania del gioco. Assistito da Aglietiello, scruta le nuvole in cerca di combinazioni numeriche vincenti, ottenendo solo di contrariare sua moglie Concetta. Ma Ferdinando si tormenta anche per l’eccessiva fortuna al gioco del suo dipendente Bertolini, a cui proibisce di frequentare la figlia Stella. La sua invidia esplode quando l’impiegato vince una quaterna suggeritagli in sogno da Saverio Quagliuolo, defunto genitore di Ferdinando. Questi, convinto che suo padre abbia sbagliato beneficiario, si rifiuta di erogare la vincita e si appropria del biglietto, dopo di che convoca un avvocato per avere sostegno legale alla tesi secondo cui sarebbe lui il legittimo vincitore. I suoi argomenti, mescolando convinzioni personali e legge, fede e superstizione, confondono anche il parroco, chiamato da Concetta per dirimere la contesa. Che precipita quando l’irato Ferdinando fa partire accidentalmente un colpo di pistola. Conscio del pericolo corso, egli restituisce a Bertolini il biglietto, accompagnandolo però con un violento quanto efficace anatema. In capo a un mese il giovane, sfinito dalle disgrazie che – per coincidenza o per autosuggestione – l’hanno colpito, riconosce a Ferdinando il diritto di rivendicare la vincita. In compenso, il protagonista acconsente al matrimonio fra il giovane e sua figlia, donando a lei, come dote nuziale, la vincita di quattro milioni.
Quando sono in palcoscenico a provare, quando ero in palcoscenico a recitare… è stata tutta una vita di sacrifici. E di gelo. Così si fa il teatro. Così ho fatto! Ma il cuore ha tremato sempre tutte le sere! E l’ho pagato, anche stasera mi batte il cuore e continuerà a battere anche quando si sarà fermato.
(Parole pronunciate da Eduardo de Filippo a Taormina, nel suo ultimo discorso)

I PERSONAGGI

Concetta

E’ la moglie di Ferdinando Quagliuolo e ne biasima l’irragionevole mania del gioco. Da una parte l’ostinazione di Ferdinando e, dall’altra, l’insofferenza della moglie determinano un rapporto carico di risentimento. I malumori familiari raggiungono l’apice con la vincita di quattro milioni di Bertolini, grazie ad una quaterna suggeritagli in sogno dal padre di Ferdinando. Il testardo e pretestuoso rifiuto del marito di erogare la vincita a Bertolini esaspera la donna, che esibisce l’astio nei confronti del marito attraverso una maschera ingrugnita. Concetta ha ben compreso la natura furfantesca di Aglietiello, che ella mal sopporta solo per assecondare la volontà del marito.

Margherita

E’ la cameriera di casa Quagliuolo. Dal modo in cui si muove e da certe sue espressioni di insofferenza per la mala grazia con cui le si rivolge Ferdinando, si intuisce che sta a servizio nella casa da molto tempo e che gode di una certa “libertà d’azione” e di espressione. Popolana, dotata di furbizia e di senso pratico, inevitabilmente testimone di tutte le beghe familiari, è infastidita da Aglietiello che non perde occasione per importunarla con baci rubati e richieste di mostrargli le gambe. Sinceramente desiderosa di non essere infastidita dall’uomo, si dà tuttavia da fare per convincerlo che non ha, come lui provocatoriamente sostiene, le gambe storte.

Aglietiello

“Uomo di fatica” in casa Quagliuolo, ma in particolare compagno di speranze di Ferdinando, nel quale alimenta continuamente il desiderio, puntualmente disatteso, di vincere al lotto. Profittando di tale fissazione del suo padrone, s’ingegna a guadagnarsi da vivere interpretando per lui visioni, volontà dei vivi e dei morti, e traducendo il tutto in terni e quaterne, immancabilmente pronto a fornire una spiegazione logica delle perdite. E’ la sua maniera di arrangiarsi per vivere, e non vede niente di male nel fare un po’ “fesso” il suo padrone. Il soprannome dialettale del personaggio allude all’aglio che, secondo le credenze e le superstizioni popolari, ha anche il potere di proteggere la casa dal malocchio. In realtà, più che avere un ruolo di supporto alla famiglia Quagliuolo, Aglietiello specula per proprio tornaconto sulla debolezza di Ferdinando, che egli ha ben intuito. Servo povero e furbo, ignorante e bugiardo, “aiutante magico” per necessità ma senza convinzione, presenta chiare affinità con Pulcinella, soprattutto nelle controscene mute, come quando, ad esempio, nel contrasto del primo atto tra Ferdinando e Concetta “… rientra e si pone discretamente in ascolto, fra i due; durante la scena che segue, a seconda dei casi, darà ragione all’uno e all’altra”. Aglietiello, quasi sempre in scena quando c’è Ferdinando, ne appare quasi l’ombra, una specie di “cattiva coscienza” della sua caparbia ignoranza. Nella sua pretesa di ricavare i numeri vincenti dalla forma delle nuvole, è una specie di àugure popolare, che si esprime in un dialetto fortemente sgrammaticato ma che, quando si avventura nella descrizione delle visioni notturne, ricorre a un improbabile e pretenzioso italiano.

Il Rag. Pennacchio

Vicino di casa della famiglia Quagliuolo. Ha la classica funzione utile a dar risalto, al suo primo apparire in scena, al “carattere” del protagonista. In qualche modo anticipatore di un altro episodio del teatro di Eduardo, quello del vicino che – ne Le voci di dentro – arriva in casa d’altri per denunciare il forte sospetto di un “piccolo omicidio familiare”, in questo caso farsescamente derubricato ad avvelenamento del cane di famiglia. Il suo vestire a lutto è funzionale a introdurre un “ponte” tra la dimensione dei vivi e quella dei morti. Entra in scena con aspetto freddo e grave, dovuto alla motivazione per la quale desidera parlare con don Ferdinando. E’ certo, infatti, che il suo vicino abbia avvelenato il suo cane Masaniello con la complicità di Aglietiello. Non nasconde la sua radicata antipatia per i due accusati che, però, irridenti e indifferenti nei confronti dell’accaduto, fanno muro accrescendo il rancore dello stesso per la perdita subita. Alla fine, con visibile soddisfazione, sarà convocato dall’avvocato Strumillo come testimone dell’incontro tra Ferdinando e Bertolini a proposito della lite sorta intorno alla quaterna vincente.

Ferdinando Quagliuolo

Non solo ha la passione del gioco ma è anche gestore di un banco del lotto. Il lotto dunque è tutta la sua vita, dandogli di che vivere e di che tormentarsi. Di notte interroga le nuvole, cercando di interpretarne le forme per ricavare combinazioni cabalistiche vincenti. Malgrado la sua persistente sfortuna, continua a nutrire la speranza che la buona sorte lo ripaghi. E’ roso dall’invidia per la fortuna al gioco di Bertolini, suo dipendente, al punto da negargli il consenso di frequentare sua figlia Stella. Quando Bertolini vince una quaterna grazie ai numeri suggeritigli in sogno dal padre di Ferdinando, quest’ultimo si rifiuta di erogargli la vincita e si appropria del biglietto. Ferdinando sostiene infatti che suo padre, ignaro del suo cambio di domicilio e del fatto che nella casa del figlio si fosse trasferito Bertolini, abbia sbagliato beneficiario. Sentendosi vittima di un complotto, Ferdinando ricorre all’avvocato Strumillo con il quale, presente anche il prete don Raffaele, sostiene assurde tesi che mescolano fede, superstizione e fantasia. La cocciuta difesa delle proprie inconsistenti ragioni spinge Ferdinando a fingere di aver smarrito il biglietto vincente e a minacciare di morte Bertolini. Dopo uno sparo accidentalmente esploso da una rivoltella, Ferdinando restituisce il biglietto al legittimo proprietario, augurandogli però ogni sciagura. L’anatema perde la sua terribile efficacia solo quando Bertolini rinuncia alla quaterna vincente. Come appagato dal riconoscimento di un diritto, Ferdinando muta atteggiamento e acconsente al matrimonio della figlia con Bertolini, offrendole in dote la vincita. Ancora una volta, nello scontro tra i due contendenti, affiora il contrasto generazionale più volte rappresentato da Eduardo e, come pure è frequente nella sua drammaturgia, i vecchi – anche quelli che possono apparire più simpatici – mostrano una protervia, una gelosa difesa dei propri privilegi, che sfociano nella cattiveria di una chiusa ostinazione.

Mario Bertolini

Mario Bertolini è impiegato presso il banco lotto di Ferdinando. Il suo carattere, sottolineato dalla didascalia che lo descrive al suo primo apparire in commedia, lo apparenta allo stereotipo del borghesuccio, sorta di Felice Sciosciammocca. Nato in una famiglia povera, si è costruito un certo benessere economico grazie alla sua eccezionale fortuna al gioco. Una lunga serie di ambi e terni vincenti gli ha permesso di prendere in affitto la vecchia casa paterna del suo datore di lavoro. I sogni di Mario sembrano essere infallibili fonti di combinazioni numeriche vincenti, suscitando l’invidia di Ferdinando che, per questo, gli impedisce addirittura di frequentare sua figlia Stella, fino a minacciarlo di licenziamento. Ma Bertolini, che può rimproverare l’irregolarità della propria posizione lavorativa a Ferdinando, ha la situazione in pugno. Il risentimento di Ferdinando esplode quando il giovane vince una quaterna con i numeri datigli in sogno dal padre del protagonista, che pertanto si appropria del biglietto vincente sostenendo di esserne il legittimo proprietario; ciò in quanto suo padre, credendo di trovare nella vecchia casa suo figlio e non un estraneo, avrebbe involontariamente sbagliato il beneficiario della “soffiata”. Solo dopo l’ennesimo scontro con Ferdinando, Bertolini rientra in possesso del biglietto, ma Ferdinando gli scaglia contro un anatema; sfinito da una lunga sequela di incidenti, il giovane rinuncia alla riscossione della vincita, riconoscendo al datore di lavoro la legittimità delle sue assurde pretese, e in compenso ottiene il consenso a sposare Stella. E Ferdinando benedirà il matrimonio concedendo la vincita contesa come dote nuziale della figlia. Bertolini, nei primi due atti, riveste essenzialmente i panni dell’antagonista ma, nel terzo atto, perseguitato e non più persecutore, acquista uno spessore umano che fin lì non gli era appartenuto, ribaltando la prospettiva del testo con il far apparire il “vecchio” come carnefice.

Stella

E’ la giovane figlia dei Quagliuolo. Frequenta Bertolini, impiegato presso il banco lotto del padre, ma l’invidia di questi per la sfacciata fortuna del giovane genera il divieto ai due giovani di vedersi. Stella prova a ribellarsi alle pretese del padre, spalleggiata dalla madre Concetta. Il rifiuto di Ferdinando di erogare la vincita di quattro milioni a Bertolini alimenta le tensioni familiari: la giovane appare spesso ammutolita, mentre si aggira nervosissima per la casa. Soltanto alla fine, perché esasperata, trova il coraggio di contrapporsi al padre in maniera dichiarata. Ma quando a Ferdinando viene riconosciuto il preteso diritto di essere l’unico legittimo vincitore della quaterna data in sogno a Bertolini, Stella ottiene il consenso al suo matrimonio con quest’ultimo e riceve in dote i quattro milioni della vincita.

Carmela

E’ una donna del popolo, di professione stiratrice. Entra in scena per avallare la tesi di Ferdinando, secondo il quale i numeri vincenti dati in sogno a Bertolini erano destinati a lui, poiché lo spirito del padre Saverio Quagliuolo ha confuso l’impiegato con suo figlio. La popolana racconta la visione notturna in cui lo stesso don Saverio Quagliuolo la prega di comunicare a Ferdinando di essere unico destinatario del sogno benefattore. Unica a schierarsi dalla parte del protagonista sostenendone le rivendicazioni, Carmela media fra ragioni terrestri e “celesti”.

Don Raffaele Console

Don Raffaele Console è il prete che prova a convincere Ferdinando dell’assurdità della sua tesi, secondo la quale il biglietto vincente spetterebbe a lui e non a Bertolini. Il sacerdote, che nutre la fiducia di veder prevalere il buonsenso, si trova invece invischiato nelle riflessioni di Ferdinando che arriva a sentenziare sul senso di giustizia del mondo dell’oltretomba. Il parroco, chiamato in causa in quanto “conoscitore di anime” si sforza di sostenere che la fede non può essere messa in discussione dalle credenze popolari, né strumentalizzata per far valere interessi personali. Don Raffaele entra in polemica neanche tanto sottile con l’avvocato Strumillo, animando un gustoso conflitto tra una dimensione spirituale ed una decisamente laico-affaristica.

L’Avvocato Strumillo

Classico esponente del sottobosco che affolla le immediate adiacenze del Foro napoletano, tipico “paglietta” perennemente a caccia di qualche incarico anche di poco conto per sbarcare il lunario, è l’avvocato convocato da Ferdinando per far valere la tesi secondo cui il biglietto vincente spetta a lui e non a Bertolini. Nelle vesti di uomo di legge, Strumillo chiede dettagliati ragguagli sull’accaduto, ma non può che constatarne rapidamente l’intraducibilità in termini legali. Nell’ultimo atto, la situazione determinatasi per la maledizione scagliata da Ferdinando contro Bertolini, costringe Strumillo a venire a patti con un modo di vedere le cose lontano dalle sue convinzioni personali e professionali.

Erminia

E’ la sorella di Bertolini, di buona estrazione sociale. Dopo che il fratello è riuscito a farsi riconoscere come legittimo beneficiario della quaterna vincente, si sono scatenati su di lui – e per riflesso anche su di lei che vive con Bertolini – gli effetti della maledizione scagliata da Ferdinando. Erminia entra in scena, quindi, per invocare la revoca dell’anatema che ha colpito suo fratello.
Quand’ero piccolo amavo i vecchi, poi a un’età giovanile, non so, frequentavo i vecchi e non i giovani. Perché dai vecchi io apprendevo la saggezza, apprendevo e stavo a sentire quello che mi dicevano. E in quell’epoca i vecchi erano più altruisti. Mi ricordo un particolare: non vedevo l’ora di diventare vecchio.

NOTE DI REGIA

Nel tempo in cui è stata scritta la commedia il lotto – non diversamente da oggi – era il sogno napoletano a buon mercato: i piccoli borghesi vagheggiavano un vestito nuovo o una nuova sala da pranzo, le ragazze da marito il corredo e via sognando… Tutti in attesa del sabato, giorno in cui i numeri appena estratti, con incredibile velocità, correvano di bocca in bocca, di balcone in balcone, di bottega in bottega, di vicolo in vicolo, deprimendo tanti e regalando a pochi un’effimera felicità. Nella generalizzata consapevolezza che dall’indomani si sarebbe ripreso a sognare, e ad aspettare… Ancor oggi, a Napoli, il libro dei sogni, la cabala, sono quasi un moderno Vangelo nel quale i napoletani cercano non solo l’interpretazione dei sogni ma anche degli avvenimenti, traducibili in combinazioni numeriche. E’ opinione diffusa che i morti conoscano il futuro e possano comunicarlo attraverso i sogni o altri segni, e nel caso del lotto possano dare, molto raramente, i numeri o, più frequentemente, figure o “emblemi” da tradurre in numeri con l’aiuto della Smorfia. E’ indispensabile, però, che i defunti abbiano lasciato il mondo pentiti, guadagnandosi così il Purgatorio, dove si trovano o dove dovranno andare.
La commedia propone l’eterno contrasto fra sogno e realtà, fra spirito e materia, prendendo spunto da un motivo-chiave della teatralità e della cultura napoletane: l’approccio, non di rado reso esasperatamente irrazionale dal bisogno, al gioco del lotto. Intorno al quale mito, infatti, ruota l’esistenza di tutti i personaggi della commedia che, nel rappresentare fedelmente il sottostante humus socio-culturale, impastato di credenze popolari, di superstizioni, di costante relazione con l’oltretomba, fa agire nella vicenda – quasi con la medesima capacità di determinare gli eventi – vivi e morti. La superstizione si tramuta in fede e si sovrappone alla religione, al punto che diventa difficile distinguerle; così può accadere che un fatto solo desiderabile diventi realtà per qualcuno, a cui può succedere di non vedere più la differenza. Il testo si basa su una lite che oscilla fra spiritismo e giurisprudenza, arrivando all’assurdità di formulare tesi sulla legittima proprietà dei sogni, con l’ostinato Ferdinando da una parte e, dall’altra parte, tutti gli altri personaggi schierati al fianco del suo antagonista Bertolini. A sostenere Ferdinando c’è il “falso aiutante” Aglietiello, che in maniera evidente replica i peggiori tratti distintivi dell’opportunista, bugiardo, ingannatore Pulcinella. Su tutti, poi, aleggia la sovrumana potenza del defunto padre di Ferdinando, Saverio Quagliuolo, al quale finiscono per riconoscere un ruolo effettivo, che obbliga alla ricerca di qualche forma di mediazione, persino il laico e pragmatico avvocato Strumillo e un uomo di fede come il parroco don Raffaele. Ma la commedia propone anche, ovviamente enfatizzandone le dinamiche conflittuali, il tema della “successione”, del passaggio di poteri. Dal punto di vista della scrittura teatrale, è stato osservato che Non ti pago parte da uno spunto farsesco per diventare una commedia di costume. In realtà, sarebbe piuttosto da dire che Non ti pago è una formidabile commedia di carattere; dopo la bisbetica di Shakespeare, dopo l’avaro, l’ipocondriaco, il misantropo e il borghese di Molière, dopo il bugiardo, il brontolone e il burbero di Goldoni, questa commedia si sarebbe potuta intitolare “il testardo” o “l’invidioso”. Ferdinando ha la passione del gioco, trasmessagli in eredità dal padre, il quale almeno aveva capito che l’unico modo per guadagnare in modo sicuro sul gioco del lotto era quello di gestire una “ricevitoria”. Morto il padre, Ferdinando eredita passione e ricevitoria, spendendo per la prima quanto guadagna con la seconda. Frustrato dalla sua persistente condizione di sconfitto da Bertolini nell’inseguire la fortuna con il gioco del lotto, è ancor più tormentato dalla prospettiva di abdicare al suo potere, di stampo ormai vetero-patriarcale, “concedendo” sua figlia in sposa al rivale e preparando, di fatto, la successione nella gestione del banco del lotto, fino ad allora considerato quasi “lascito dinastico”, fonte di risorse economiche e dello stato sociale privilegiato che compete ad un datore di lavoro. In fondo, si tratta di quel conflitto generazionale, che tornerà tante volte nel teatro di Eduardo, fra il detentore del potere familiare – ormai nella fase discendente della sua parabola – e “l’uccisore del padre” che rivendica ruolo e spazio vitale, nel caso specifico incarnato non da una figura filiale ma dal “genero” (che oltretutto ha il torto di “prendersi” anche la figlia). Su questo scontro archetipico, si innestano molti motivi appartenenti alla sfera del folclore tipicamente napoletano: la cabala, i sogni, il lotto, il dialogo alla pari con i morti, il radicato culto popolare delle anime purganti (del defunto don Saverio non sappiamo se abbia meritato il Purgatorio ma, significativamente, all’altra “aiutante” di Ferdinando, Carmela, egli dice in sogno: “siccome ho sbagliato, sto in punizione”). L’ultima creazione dei cosiddetti “giorni pari” era stata Io, l’erede; tra questa, e Natale in casa Cupiello che, grazie alle sue varie riscritture segna di fatto la nascita del ciclo dei “giorni dispari” (da ricordare che la sua prima, embrionale versione è comunque del 1931), si colloca Non ti pago, testo con il quale Eduardo mostra già di essere alla ricerca di un teatro non più costretto nei confini della farsa popolare. E, senza dubbio, una peculiarità della drammaturgia di Eduardo risiede nel fatto che le sue commedie, anche quelle rientranti nella “cantata dei giorni pari”, laddove se ne indaghi il senso, con grande facilità assumono ricchezza di significati anche alla lettura e nelle rappresentazioni odierne, permettendo agli spettatori d’oggi di vivere il “presente” di Eduardo come il loro presente. Di ancora fresca attualità si rivelano, oggi, la riflessione sugli effetti destabilizzanti del normale ordine delle cose prodotti dalla coazione a giocare d’azzardo; il “ritorno” dei morti intessuto di elementi pagani e cattolico-popolari; il riconoscimento agli emarginati (come gli esclusi, i poveri, i “femminielli”…) dell’attitudine a dialogare con i morti a vantaggio della comunità (come pretende di fare Aglietiello, che secondo i modelli d’indagine dell’antropologia sarebbe un “operatore magico”), le tensioni familiari (e sociali) legate all’idea della “successione”, del passaggio di poteri dai vecchi alle nuove generazioni. Il carattere grottesco e a tratti decisamente comico della vicenda permette all’autore di stigmatizzare, sia pure in chiave teatralmente deformante, il costume di origine pagana dell’offerta votiva non disinteressata, più o meno consapevolmente ancora vigente: io ti faccio dire le messe in suffragio, porto i fiori sulla tua tomba, procuro “rifresco” alla tua anima purgante, e tu mi ripaghi suggerendomi i numeri vincenti al lotto o con altre forme di utile assistenza (mi procuri il posto di lavoro, mi preservi la salute, mi proteggi dagli incidenti e dalla malevolenza altrui…). Ciò che molti studiosi in chiave antropologica del popolo napoletano hanno definito “commercio con i morti”. In effetti, la continua frequentazione della dimensione funebre, o meglio spiritica, della produzione eduardiana può agevolmente essere inquadrata con strumenti antropologici, piuttosto che psicologici. Nella sua ostinata ignoranza, che mischia religiosità e superstizione, Ferdinando è autenticamente sicuro di essere dalla parte della ragione, convinto com’è che tenersi buoni i morti legittimi i vivi a rivendicarne i favori, e si rifiuta testardamente di prestare orecchio alle argomentazioni dell’avvocato e del prete che si sforzano di ricondurlo alla ragionevolezza. D’altra parte, Ferdinando non può che sostenere con incrollabile convinzione la validità dell’intervento paterno e l’interpretazione delle intenzioni che attribuisce alla buon’anima; come potrebbe infatti non mostrarsi certo dell’esistenza dell’al di là e di una legge superiore senza gettare una luce di follia sul suo notturno intrattenersi sui tetti per decifrare gli esoterici suggerimenti delle nuvole? A partire da queste riflessioni, forse è possibile un ulteriore filone interpretativo. Se il gioco del lotto è una delle più autentiche espressioni della cultura popolare della città di Napoli, e se Ferdinando nel bene e nel male si “identifica” con il lotto, forse Ferdinando, contrastato sia dalla legge morale rappresentata dal prete sia dalle leggi civili rappresentate dall’avvocato, incarna la stessa Napoli che, non sentendosi nei secoli tutelata dalle istituzioni, magari confondendo desideri e diritti, religione e superstizione, ha finito storicamente per fare affidamento solo su sé stessa, tutt’al più confidando in aiuti soprannaturali. In proposito, non dimenticando l’anno di nascita della commedia, può essere di qualche interesse rileggere alcuni passi tratti dalle Lezioni di teatro, tenute da Eduardo all’Università di Roma “La Sapienza” nei primi anni ’80: a un certo punto (a corollario di alcune considerazioni dedicate a Shakespeare) egli dice “Come avrei potuto fare io durante il fascismo, se non far ridere il pubblico e poi in ultimo ammannirgli un capovolgimento dell’azione e mostrargli la tragedia? In quell’epoca anch’io ho dovuto usare una tattica […] Dopo la guerra ho potuto scrivere Filumena Marturano, Le voci di dentro, Le bugie con le gambe lunghe, Il sindaco del rione Sanità … mi sono messo contro i magistrati, i politici, tutti! L’avrei potuto fare all’epoca fascista? Sarebbe stato impossibile. […] fino a quando c’era il fascismo ho dovuto chiudere dentro tutto quello che c’era da dire.”. Né va dimenticato quanto Eduardo afferma nel poemetto Vincenzo De Pretore, scritto nel 1948, sull’abbandono e lo sfruttamento di Napoli da parte del governo; tesi poi riprese in Tommaso d’Amalfi, del 1963.
Particolarmente interessante risulta poi il ricorso di tutti i personaggi della commedia a un codice condiviso, per il quale a nessuno di essi sembra possibile disconoscere la valenza di un certo tipo di sogni, della cui legittima proprietà il gruppo arriva a discutere ricorrendo a categorie mentali e dialettiche razionali. Se, da una parte, va rilevata la “pazzia” di Ferdinando che vorrebbe addirittura portare l’anima del padre in Tribunale, non si può ignorare che perfino il parroco non se la sente di escludere del tutto le interferenze di un defunto che, in maniera discutibile finché si vuole, spalleggia Ferdinando, del quale ultimo il religioso dice: “Io non so se ha fatto bene o ha fatto male… in ogni modo ha maledetto…”. E, ancora in argomento, va rilevato a proposito del bisticcio fra la Legge e la Chiesa che il “pazzo” Ferdinando trova facilmente spazi di inserimento utili a far vacillare le posizioni dell’avvocato e del prete: per due volte i tre si trovano, da soli, seduti intorno al tavolo a discettare sull’accaduto, nel primo e nel secondo atto; la didascalia che introduce la seconda occasione, in maniera esplicita, richiama la stretta similarità dei due momenti (“Seggono come nella scena a tre del primo atto”). Ma, mentre nel primo atto i due consiglieri di Ferdinando hanno quasi gioco facile a metterlo in difficoltà denunciandone l’irragionevole cocciutaggine, nel secondo atto – dopo il presunto intervento di forze ultraterrene – è Ferdinando che con gli strumenti della logica mette in difficoltà i due interlocutori, ribaltando il senso della situazione di partenza (il parroco: “La maledizione è una cosa seria… L’Anatéma?… eh, avete detto niente…”, e l’avvocato: ” Qui subentra l’imponderabile… Qui bisognerebbe fare un esorcismo. Questi sono spiriti maligni…”). Le credenze prendono il posto della realtà: se Ferdinando è “pazzo” o superstizioso, coloro che lo circondano non gli sono da meno; non solo Carmela, tratteggiata senza tinte grottesche o ridicolizzanti, che viene a confermare con il “suo sogno” la legittimità delle rivendicazioni del protagonista, ma soprattutto “gli altri”, quelli che inizialmente ne confutavano le tesi come frutto di superstiziosa ignoranza. Senza dimenticare la stessa Concetta che, fin dalle prime battute, non disponendo di argomenti più convincenti per appoggiare i progetti matrimoniali di Mario e Stella, del primo arriva ad affermare: “Vuol dire ch’è fortunato. Se si sposa a Stella è buono pure per lei perché con le sue entrate possono fare i signori.”. Per finire a Bertolini, che realmente incappato in un’incredibile serie di guai o per casuali coincidenze o – come sostiene l’avvocato – per un fenomeno di autosuggestione, sconvolto dall’atavico terrore partenopeo della iettatura, si rassegna a rinunciare al proprio sacrosanto diritto. Con l’effetto, che prepara il finale, di un imprevedibile ribaltamento delle posizioni dei contendenti, con Ferdinando che cavalcando con sarcasmo la nuova situazione si appropria delle tesi prima sostenute da quelli che lo censuravano ritorcendole contro di loro. Nelle citate Lezioni di teatro, Eduardo rivolgendosi agli allievi dice: “Non ti pago … è ritenuta solo una commedia comica e viene trattata sotto gamba perché in Italia il comico viene trasformato in pagliacciata, in burattinata. Insomma fingono di ignorare che esiste l’umorismo. E’ la commedia più umoristica che io abbia scritto, assurda […] a un certo punto mi ero talmente ingarbugliato tra la religione, l’avvocato, le leggi, che alla fine non sapevo più come chiudere la commedia. Eppure ho trovato il modo di uscirne: usando la stessa arma. C’è una battuta del prete che dice: «Che volete da me? Io sono un servo del mistero, che si può definire con una sola parola: mistero». Comodo! E allora questo protagonista come lo piega l’avversario? Con la stessa arma, con la superstizione: lo maledice.”. Una maledizione che – mistero! – sembra funzionare. Insomma, in tutto ciò si possono anche scorgere i segni di un atteggiamento dell’autore, se non dichiarato tuttavia a lui non estraneo, che tratta la fede superstiziosa dei suoi conterranei con un certo “rispetto”; se si pensa non solo a Non ti pago, ma anche a De Pretore Vincenzo o a Questi fantasmi, è lecito pensare a una rappresentazione della superstizione dei napoletani veraci che oscilla, se si vuole ambiguamente, fra una critica presa di distanze e la compartecipazione culturale ed emotiva.
Qual è dunque la chiave di lettura della commedia che meglio può rispettare le intenzioni autorali? Ancora in Lezioni di teatro, Eduardo dice: “Vorrei farvi l’esempio di una commedia molto comica che secondo me è la più tragica che io abbia scritto e che ha un titolo terra terra, un titolo che può attirare la curiosità del pubblico, ma che non è pertinente alla drammaticità del caso. E’ Non ti pago […] Questa è una delle commedie più tragiche del mio repertorio, eppure fa scoppiare il teatro di risate. […] La tragedia moderna è quella che fa ridere, non con pagliacciate, con una comicità superficiale, epidermica, ma affondando il dito nella piaga, nel dramma comune, nella tragedia comune […] Se pensate di commuovere il pubblico con la piagnisteria di un testo pesante, voi perdete il senso della tragedia di oggi. Il mio consiglio è di mantenervi in una chiave grottesca, di assurdo. Noi ridiamo di tutto in questo momento, perfino della morte!”. Da qui conviene dunque partire per interpretare questo testo che, per quanto costruito su una trovata decisamente comica, assume significati foschi, inquietanti, da autentico dramma. Ferdinando è un personaggio tutt’altro che positivo; a voler guardare oltre la complice simpatia che suscita nello spettatore per le sue posizioni quasi puerilmente capricciose e per il divertimento che scaturisce dalle sue continue trovate dialettiche, è l’ostinato depositario di un’inaccettabile visione dei rapporti familiari e sociali, dispotico con la moglie, manesco padre-padrone di Stella, arrogante con i dipendenti, pronto ad avvelenare un cane per risolvere piccole beghe condominiali, isolato dai familiari e incattivito nella sua testarda resistenza di vecchio di fronte al nuovo che pretende i suoi spazi, invidioso e vendicativo, pretestuoso sostenitore di argomenti raziocinanti ma non ragionevoli, egli in nessun momento della commedia compie un gesto o dice una parola che lo possano nobilitare. Il “lieto fine” con cui si chiude la commedia non può non lasciare in bocca un retrogusto amaro, se solo si pensi che Ferdinando, nel compiere il “beau geste” di offrire in dote alla figlia che si sposa i quattro milioni della vincita contesa, non fa altro che restituire, indirettamente, al legittimo proprietario ciò di cui si era indebitamente appropriato. Alla fine, di fronte alla valanga di guai che hanno stremato Bertolini, tutti credono alla potenza dell’anima dei trapassati: è la vittoria che cercava Ferdinando; ora che tutto è sistemato e che i fatti gli hanno dato ragione, può permettere le nozze tra sua figlia e Bertolini. Ma è estremamente patetico questo crepuscolo del personaggio che, con un atto pomposamente esibito, con una pacchiana guasconata, nel generale disagio degli astanti, malinconicamente si camuffa da presunto vincitore morale nel velleitario tentativo di mascherare la sua sconfitta di uomo, di marito e di padre.
I critici e gli studiosi non hanno praticamente mai “trattato” il personaggio di Ferdinando come fortemente negativo: tutt’al più definendolo “testardo” e “bizzoso”, ma anche lodandone le capacità logico-dialettiche e schierandosi con simpatia dalla sua parte, in maniera anche piuttosto evidente. Ma allora perché Eduardo (del quale va detto che non risultano pronunciati o scritti suoi giudizi sulle qualità umane del personaggio) ha definito questa commedia come la più tragica che abbia mai scritto? Perché, riferendosi alla vicenda, parla di drammaticità del caso? Eppure, quando ha usato questa espressione aveva già composto commedie come Napoli milionaria e Il sindaco del rione Sanità (e, se vogliamo aggiungerla in ragione del suo epilogo, anche Natale in casa Cupiello). Eppure in Non ti pago non muore nessuno, le disgrazie che si susseguono vengono sistematicamente contrappuntate da risvolti comici, c’è perfino il lieto fine… E allora dov’è la tragicità di cui parla Eduardo? Anche su questo non risultano, in maniera documentata, tesi formulate dai critici e dagli studiosi, i quali si sono limitati a riportare l’affermazione dell’autore senza commentarla. La verità è che questa commedia mette a nudo, con quella crudezza ammantata di grottesco che secondo la poetica eduardiana definisce la tragedia moderna, le pulsioni più inconfessabili dell’uomo, l’infimo degrado a cui può spingere la bassezza umana, qui incarnata dal meschino Ferdinando. E questo, in un finale di commedia che abbia ben poco della festa, deve emergere.
Avevo quattro anni la prima volta che sono salito alla ribalta con un vestitino da cinese: uno splendore abbagliante. Ero a Roma al teatro Valli, ero piccolo e sbigottito. Mi portarono in scena all’ultimo momento. La recita è luce, è sorpresa. Per anni ho recitato in teatrini popolarissimi. Mi ricordo che le rappresentazioni erano continue e il pubblico indisciplinato tentava di entrare sempre, c’era un impresario che pigliava l’idrante dei pompieri e innaffiava il pubblico urlando: “Uscite, uscite”.

VITA DELLA COMMEDIA

La commedia, scritta nel 1940, iniziò la sua lunga e fortunata vita l’8 dicembre di quell’anno al Teatro Quirino di Roma, rappresentata dalla Compagnia “Teatro Umoristico I De Filippo”. Nel 1942 divenne un film per la regia di Carlo Ludovico Bragaglia, alimentando con le due ore di divertimento che offriva a una popolazione su cui piovevano le bombe il sogno di una miracolistico mutamento di condizione. Venne poi ripresa in TV (in diretta dal teatro Odeon di Milano) il 13 gennaio 1956 e (da studio) il 5 febbraio 1964. La commedia è stata anche rappresentata a Parigi e a Buenos Aires.
Nel periodo in cui la commedia esordiva, Titina aveva lasciato la compagnia di cui aveva fatto parte con i fratelli e, teatralmente, la sfida si giocava tutta fra le due straripanti personalità di Eduardo (Ferdinando) e Peppino (Bertolini).
Il luogo scenico dell’azione è la sala da pranzo, ambiente dove (ancora una volta, nella drammaturgia eduardiana) nascono e si risolvono i conflitti familiari. Il testo, che nel 1941 fu trasposto in italiano a cura di Cesare Vico Lodovici e così tradotto fu pubblicato nello stesso anno dalla rivista “Comoedia”, ha subito diverse modifiche nel tempo. Nella prima versione il terzo atto si svolgeva nella casa di Bertolini (che originariamente si chiamava Procopio e non Mario), mentre in seguito tutto verrà concentrato in casa Quagliuolo. In tale prima versione, il “vincitore” della contesa era Bertolini che, dopo essere stato vittima dell’anatema di Quagliuolo e dopo un’aggressione che poteva avere effetti letali, nel proprio appartamento riusciva a ridurre il rivale a miti consigli costringendolo a riconoscergli la vincita. L’ambientazione in casa di Bertolini consentiva di mostrare i segni di una fortuna decisamente eccessiva, materialmente riconoscibile in una serie di oggetti “trasudanti” benessere e cattivo gusto, di cui il pubblico poteva ridere. In proposito, è interessante il commento di Ennio Flaiano che su “Oggi”, 14 dicembre 1940, parlava di scenografia “comica”: “Conoscevamo la scenografia surrealista, l’espressionista e i segreti della luce psicologica non ci spaventano: ma che si potesse arrivare a una scenografia comica, valendosi beninteso di elementi seri, è stata una vera sorpresa. La risata che ha accolto questa messa in scena, i falsi tappeti turchi, la carta da parati gialla, il fonografo e le enormi tende, è una prova, del resto, che la ricerca psicologica del trovarobe era perfettamente riuscita”. In effetti, l’arredamento di cattivo gusto era la traduzione tangibile del carattere di un personaggio fortunato, affettato ed antipatico.
Le sorti del personaggio però mutarono sensibilmente nella trasmigrazione della vicenda dal teatro al cinema: il film diretto da Bragaglia presentava almeno due motivi di rilevante interesse. Innanzi tutto il ritorno di Titina, che si univa di nuovo ai due fratelli ricomponendo quel formidabile trio da poco disciolto. E’ da dire che proprio grazie a questo rientro, il film costituisce un’importante testimonianza della recitazione dei tre fratelli, perché dà un’idea di quello che poteva essere sulla scena l’impatto del trio al completo, anche se è ampiamente documentato che nelle sue prove cinematografiche Eduardo soffriva, sicuramente più di Titina e di Peppino, dell’assenza di un pubblico in carne ed ossa. L’altro motivo di grande interesse è costituito dal fatto che nel film il “vincitore” non è più Bertolini, ma Quagliuolo, che comunque fa le sue concessioni finali. Questo diverso epilogo (che, secondo quanto affermato da Bragaglia in un’intervista del 1990, fu suggerito all’autore proprio dal regista cinematografico) evidentemente dovette convincere pienamente Eduardo, che lo trasferì negli allestimenti teatrali e lo ripropose nelle versioni del testo date alle stampe. Alla fine, quindi, lo scontro generazionale si risolveva a vantaggio dell’anziano. Non si può escludere che sotto tale ribaltamento serpeggiasse il dissidio già sorto fra Eduardo e Peppino e che il nuovo finale, sfavorevole a Bertolini, fosse da ricondurre alla nuova situazione creatasi in compagnia con la fuoriuscita di Peppino che, prima, da vincitore guadagnava trionfante il centro della scena. Va infatti considerato che per il protagonista impersonato da Eduardo sarebbe stato difficile presentarsi in palcoscenico nei panni di un personaggio vinto da un Bertolini a sua volta impersonato da un attore che non fosse Peppino (di cui Eduardo, nonostante i dissensi, conosceva meglio di chiunque altro, e assecondava, le straordinarie qualità di attore comico). D’altra parte, la tesi di un forte nesso tra la composizione della compagnia e i testi rappresentati trova sostegno in una lettera del 1934 che Eduardo scrisse al drammaturgo Umberto Morucchio per chiarirgli, da capocomico, i motivi per i quali i tre fratelli si rifiutavano, malgrado gli impegni già assunti in tal senso, di mettere in scena un testo del citato autore intitolato Asso di cuori, asso di denari. Scriveva Eduardo in maniera abbastanza categorica: “Il nostro è un teatro speciale, che voi ormai conoscete bene: la nostra è una compagnia di complesso, ma che soprattutto si basa su tre interpreti singolari, i quali devono avere, in ogni lavoro, tutti e tre, una ragione specifica di presentarsi al pubblico, che manca nel vostro e in quasi tutti i lavori, anche notevolissimi, dei più pregiati Autori che han voluto cortesemente affidarci del repertorio di loro composizione. E’ naturale quindi che noi finiamo col preferire le nostre commedie, che agevolmente riescono a tener conto di tutte le nostre possibilità e necessità sceniche. E’ anche giusto che, in casa nostra, rischiando il nostro denaro e le nostre fatiche, facciamo un po’ a modo nostro, e non lasciandoci influenzare dalle pretese interessate di chi con blandizie o viceversa vorrebbe imporci una linea diversa”. Peraltro, nel caso in questione, una vertenza legale ebbe l’esito di costringere i tre fratelli a rappresentare, con poco successo, il testo. Escluso, se non altro per ragioni reputazionali, che i De Filippo volessero puntare consapevolmente a uno scarso successo, evidentemente bisogna concludere che, in grado di prevedere alla sola lettura la resa scenica di un testo, essi avevano una collaudata capacità di congegnare i loro lavori in funzione delle loro potenzialità. E questo in virtù di una prassi teatrale e imprenditoriale che faceva leva non su particolari teorie del teatro o astratte elaborazioni concettuali ma su elementi molto più legati al concreto impegno quotidiano (possibilità, necessità, rischio, denaro, lavoro, fatiche, sono i termini con cui Eduardo argomenta nella sua lettera).
Molti recensori hanno definito l’interpretazione di Eduardo nel ruolo di Ferdinando come quintessenza dell’ambiguità, nel suo posizionarsi sul limite incerto fra passione e ragione, fra buona fede e opportunismo, tra autentica alterazione psichica e simulazione, fra sogno e realtà, rendendo il suo personaggio uno dei più originali, paradossali e “pirandelliani”. Peraltro, Eduardo rifiutò quest’ultima etichetta, rivendicando l’originalità della sua creazione ed ammettendo, tutt’al più, un possibile quanto non ricercato parallelismo tra questa e quelle pirandelliane: “Le conclusioni che traggo io – disse – non sono pirandelliane. Sofistici sono i napoletani e sofistici sono i siciliani. Il personaggio di Non ti pago deve vincere per la sua forza di volontà, per questa sua testardaggine che è simile a quella dei Siciliani”.
Non chiamatemi senatore, ci ho messo una vita a diventare Eduardo
(Eduardo De Filippo, dopo la nomina a senatore a vita)

L’AUTORE

Eduardo De Filippo, destinato a una luminosa carriera di attore e regista teatrale e cinematografico, oltre che di drammaturgo, oggi riconosciuto unanimemente fra i più grandi interpreti delle nostre scene del Novecento, nasce a Napoli il 24 maggio del 1900, figlio naturale del già celeberrimo Eduardo Scarpetta e della sartina Luisa De Filippo. Il piccolo Eduardo calca le scene sin dai primi anni di vita: a soli quattro anni debutta presso il Teatro Valle di Roma nell’operetta La Geisha di Owen Hall e compare regolarmente in piccoli ruoli nelle messinscene della compagnia del padre.
Nel 1911 è iscritto al collegio Chierchia di Napoli, ma ne fugge quasi subito per recarsi nella capitale e tentare, ancora giovanissimo, la via del cinema, in ciò supportato dalla zia Ninuccia. Tuttavia, la sua inclinazione lo conduce con convinzione sempre maggiore verso il teatro, cosicché già nel 1914 entra a fare parte stabilmente della compagnia diretta dal fratellastro Vincenzo Scarpetta, affiancando a tale attività, nei mesi di riposo, la collaborazione con il grande artista napoletano Enrico Altieri.
La frequentazione delle scene, precoce quanto assidua, gli garantisce un’ottima formazione tecnica e una versatilità che gli consentirà, in anni più maturi, di cimentarsi nei più diversi generi teatrali. I suoi interessi non si esauriscono, tuttavia, nello studio del modus operandi di coloro che elegge a proprio modello, ma si estendono sino ad abbracciare le teorie di intellettuali quali Ernesto Murolo e Rocco Galdieri, e di uomini di teatro come Libero Bovio e Roberto Bracco, che sollecitano in lui l’ambizione a farsi interprete di un teatro educativo e divertente in eguale misura.
Eduardo, che si distingue sulle scene già a partire dal 1919, collabora con la compagnia di Vincenzo Scarpetta sino al 1930. Il repertorio è costituito in prevalenza da commedie musicali e pochades di gusto francese, con una netta preferenza per le opere del famoso padre, nelle quali il giovane interprete si distingue con parti di secondo brillante e, in qualche occasione, addirittura di protagonista. Compagni di scena costanti e affezionati sono i fratelli Titina e Peppino, scritturati entrambi nella compagnia Scarpetta.
Gli anni Venti rendono Eduardo consapevole di due ulteriori talenti, che si affiancano alle già palesi doti di interprete: l’artista scrive le sue prime drammaturgie (si ricordino, fra i primi componimenti, Farmacia di turno, Ho fatto il guaio? Riparerò e Ditegli sempre di sì) e si cimenta nella regia, senza stancarsi, intanto, di esercitare la propria professione di attore e perfezionare le proprie capacità frequentando generi anche molto diversi, che spaziano dalla commedia napoletana alla rivista.
Sebbene sia proprio la rivista a garantire a Eduardo un consenso di pubblico che egli, accortamente, asseconda, l’artista non nasconde di avvertire una progressiva insofferenza, una insoddisfazione crescente nei rispetti di una tipologia di teatro che percepisce come sorpassata. Sempre più forte il desiderio di fondare, insieme ai fratelli, una compagnia autonoma; desiderio che realizza nel 1931, con l’istituzione della “Compagnia Umoristica di Eduardo De Filippo”, che segue il timido tentativo della ditta “Ribalta Gaia”, risalente all’anno precedente.
La compagnia, ribattezzata di lì a poco “Teatro Umoristico i De Filippo”, conquista rapidamente il favore del pubblico. I fratelli propongono un repertorio che risente ancora della matrice scarpettiana, avendo però l’abilità di recuperarne solo la freschezza d’improvvisazione, l’amore per il “numero” e per la riconoscibilità dell’attore. Il successo è sempre maggiore e sollecita l’attenzione della critica nazionale.
Agli inizi degli anni Trenta, la compagnia dei De Filippo è attesa con impazienza nelle principali piazze del Paese, ivi inclusi i grandi centri del Nord Italia come Milano e Torino, che ne apprezzano le proposte nonostante (o forse in virtù di) una sempre marcata connotazione vernacolare. Si ammira ovunque «la gaudiosa freschezza d’una recitazione sobria, immediata, potente» (Mario Intaglietta, I De Filippo al Teatro Chiarella, in «La Gazzetta del Popolo», 13 settembre 1933).
Al 1935 risale l’incontro fondamentale con la drammaturgia pirandelliana, già nota a De Filippo sotto il profilo teorico, ma che ora può essere affrontata con piena padronanza del mezzo espressivo. L’allestimento di alcuni testi dell’autore girgentino avvicina Eduardo al teatro in lingua, ma non spegne l’amore per la schiettezza sovversiva del vernacolo, scoraggiata, nella fase storica in atto, dalle imposizioni più o meno sottili del regime e che tuttavia mantiene, nel teatro di De Filippo, la sua forza dirompente e coraggiosa.
Negli stessi anni, e almeno fino al 1944, la popolarità crescente dei De Filippo li rende oggetto d’attenzione anche da parte delle case di produzione cinematografica, che intendono trasporne la vis comico-grottesca sul grande schermo. Eduardo è protagonista – e talora anche regista e sceneggiatore – di numerosi film che, pure graditissimi al pubblico e alla critica, non gli consentono di raggiungere i vertici toccati in teatro, nella performance dal vivo.
Il 10 dicembre 1944 la compagnia si scioglie, a seguito dell’intensificarsi dei dissidi tra Eduardo e Peppino. Eduardo fonda, così, una nuova compagnia, in cui recita a fianco di Titina: si tratta della compagnia “Il teatro di Eduardo”. Si fa pressante, in questo lasso di tempo, la vocazione a cantare sulle scene i “giorni dispari”, dando voce al tragico quotidiano che intesse gran parte della drammaturgia eduardiana. È dell’anno successivo la celebre Napoli milionaria, che, mentre il conflitto è ancora in corso, ne denuncia coraggiosamente gli effetti devastanti.
La seconda metà degli anni Quaranta è ricca di capolavori: risale al 1946 Questi fantasmi, in cui Eduardo interpreta magistralmente l’ingenuo Pasquale Lojacono; nello stesso anno va in scena Filumena Marturano, in cui è Titina a incarnare la protagonista e a riflettere, con le parole della stessa, sul problema allora attualissimo dei figli illegittimi; il 1947 porta alla ribalta Le bugie con le gambe lunghe e, ancora, il 1948 regala al pubblico triestino La grande magia, a quello milanese Le voci di dentro e a quello veneziano La paura numero uno.
Eduardo De Filippo si separa, intanto, dalla moglie Dorothy e si lega alla soubrette Thea Prandi, che gli darà Luca, in quello stesso 1948, e Luisa l’anno successivo.
Con il 1948 si interrompe temporaneamente l’attività teatrale di De Filippo, che sceglie di dedicarsi al cinema fino al 1953 e destina parte degli ingenti proventi alla ricostruzione del Teatro San Ferdinando di Napoli (effettuata per intero a sue spese). L’impegno teatrale tornerà vivo, però, sin dalla metà degli anni Cinquanta, quasi a reagire ai profondi mutamenti che coinvolgono il panorama artistico italiano e che sembrano negare validità al grande teatro d’attore in nome dell’ormai radicata prassi registica promossa dai teatri stabili.
Dopo che nel 1959 vede la luce Sabato, domenica e lunedì, nel corso degli anni Sessanta la carriera teatrale di Eduardo prosegue accanto a quella cinematografica e si congiunge, per così dire, a quella televisiva: De Filippo sembra esprimere, infatti, un’ambizione a superare la natura transeunte del teatro proponendo registrazioni televisive dei suoi spettacoli e producendo una serie di fortunate commedie che lo rendono famoso anche al pubblico del piccolo schermo.
Appartengono agli anni Sessanta alcune importanti novità: si ricordino almeno Il Sindaco del Rione Sanità (1960), L’arte della commedia (1965) e Il contratto (1967). L’ultima commedia scritta da Eduardo è Gli esami non finiscono mai, del 1973, in cui l’attore si presenta nei panni di Guglielmo Speranza e rivolge una sorta di appello, estremo, umile, denso di pietas, a quegli spettatori che l’hanno accompagnato sin dai suoi esordi.
Con gli anni Ottanta, la leggenda eduardiana trova conferme e riconoscimenti. Dopo il “Premio internazionale Feltrinelli” e due lauree honoris causa, il 26 settembre 1981 Eduardo è nominato senatore a vita dal Presidente Pertini.
La sua carriera, toccati e mai più abbandonati i massimi vertici, giunge a conclusione con la morte, avvenuta il 31 ottobre 1984.

www.icomiciditalia.it
[email protected]
Gianni La Camera 350 1183376

GRAZIE A TUTTI

Calcio Napoli: Tra Sogno Europeo e Realismo di Serie A – Un Viaggio Nell’Anima Azzurra

Realizza i tuoi sogni più grandi con la nostra creatività senza limiti

Esprimi la tua creatività con Creatività Senza Limiti, la società che sfida i limiti della creatività. Dai forma ai tuoi sogni e crea in modo unico, lasciandoti ispirare dalla magia della creatività. Sperimenta nuovi orizzonti e crea il futuro con noi.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Torna in alto